Nicola Masi. Memorie di un reduce

Index 

Infanzia a Forenza

Nei Lancieri di Aosta

Sul fronte greco

Soggiorno ad Atene

Dicembre 1942: assalto alla caserma

Ritorno amaro in Italia

Bibliografia

Ricerca e testi: 
Renato Mancino renatomancino@tiscali.it
elaborazione grafica: 
Pasquale Libutti     rapacidiurni@gmail.it
  

Ho in amore di una vita il canto 
dove il sangue fu sangue, il pianto
pianto.
Umberto Saba
Infanzia a Forenza
Il mio nome è Nicola Masi, sono nato a Forenza il 22 giugno 1919. Mio padre era un calzolaio, invalido della prima guerra  mondiale. La mia famiglia era povera, le mancava qualsiasi mezzo di sussistenza e la mia infanzia, di conseguenza, fu misera, faticosa e piena di privazioni. Non frequentai mai la scuola e all’età di nove anni ero già un pastorello messo “a padrone” presso le varie  masserie di Forenza. All’epoca quella  condizione, comune a tanti poveri fanciulli, era una specie di cessione in schiavitù, per cui la famiglia concedeva un proprio figlio ai padroni terrieri, in genere per la custodia e  il pascolo delle greggi, in cambio di qualche spicciolo all’anno e con il patto che il padrone provvedesse al mantenimento del fanciullo, compresi i vestimenti e le calzature. 
      I pochi soldi, che il padrone dava una volta all’anno alla mia famiglia, non bastavano neanche a mio padre per comprarsi qualche litro di vino, a cui ricorreva spesso per dimenticare la sua triste e  misera condizione.  Quanto al mio mantenimento, il padrone provvedeva con qualche tozzo di pane secco al giorno, una giacca vecchia da lui dismessa,  che mi arrivava fino alle ginocchia, un paio di scarpe usate molto più grandi della mia misura, tanto che,  camminando, i piedi si sfilavano, mentre esse rimanevano  immerse nel fango. Per questa ragione preferivo non calzarle del tutto e andavo a piedi scalzi, sia col caldo sia col freddo. 
      Quando il padrone mi mandava in paese, e questo si verificava raramente, si preoccupava sempre che con me  portassi l’uncino, un bastone tipico dei pastori, alto circa 2 metri, triste simbolo della mia condizione. Quando arrivavo in paese provavo grande soggezione della gente, perciò evitavo le strade affollate e giungevo a casa facendo un lungo giro intorno al centro abitato. 
 
Ricordo che una volta, era il giorno di Natale, il padrone acconsentì che andassi a casa, ma non era ancora pomeriggio che era già passato a riprendermi e, mentre mi riconduceva all’ovile che era in prossimità del bosco, io piansi disperatamente per tutto il viaggio.
      Quella notte, un terribile temporale e un vento spaventoso squassarono le già sfasciate imposte, che si reggevano a mala pena in piedi. Le pecore, impaurite, aprirono un varco nel recinto e scapparono sparpagliandosi ovunque. Io, che venivo sempre lasciato da solo a guardia delle greggi, ero l’unico cristiano presente in quel luogo spaventoso,  dove anche le bestie avevano timore a stare. Ma ero così sfinito dal lungo pianto che, nonostante la burrasca infernale, rimasi sulla paglia, inerte, invocando la morte, finché il sonno non mi colse.
 
      Il mio giaciglio era costituito da un po’ di paglia sistemata per terra. Io mi coricavo vestito e, spesso, bagnato: durante la notte i miei poveri cenci si asciugavano col calore del corpo. La notte  venivo assalito dalle pulci e dalle cimici, che mi costringevano a lunghe e sanguinose grattate. Ero sempre in compagnia dei topi, alcuni di dimensioni straordinarie, che spesso si avvicinavano a me con cattive intenzioni. Una volta, mentre ero addormentato, mi rosicchiarono il mignolo del piede. Un’altra volta uno di essi s’infilò nella tasca dei miei pantaloni attratto da un piccolo pezzo di pane indurito, che avevo riservato per il giorno seguente. Nel rigirarmi, senza accorgermene, lo schiacciai col peso del corpo e il giorno dopo, benché sorpreso e disgustato da qual ritrovamento, comunque, per  fame, mangiai quella misera fetta di pane rosicchiata dal topo.

        Possidenti e autorità a Forenza, all'epoca del fascismo

Nei Lancieri di Aosta
Cosa poteva significare per me il servizio militare, se non la  fine di tanta misera disperazione? La mia carriera militare iniziò il 4 febbraio 1940.
       Con altri quattro  compaesani mi recai a piedi fino alla stazione di Forenza, di qui  in treno fino a Potenza, dove era il comando di tappa. Dopo tre giorni proseguii da solo per Napoli, destinazione la Caserma Pinerolo, dove fui arruolato nel 6° Reggimento di Cavalleria “Lancieri di Aosta”. Sapevo che in quella caserma c’era un altro mio compaesano, Rocco Masi,che andai a trovare quello stesso giorno. Rocco mi prestò la sua divisa per poter andare in libera uscita, infatti prima della vestizione i civili non potevano lasciare la caserma. L’ufficiale di picchetto notò, invece, che le mie scarpe erano sporche e mi rimandò indietro.  Non potevo trattenere la curiosità di visitare la città e allora scavalcai il muro di cinta e girai a lungo affascinato da tutto quello che vedevo.
La mia attività in caserma cominciava la mattina prestissimo con brusca e striglia; mi avevano assegnato una bella  cavalla di nome  Stroke, a cui dovevo prestare la massima attenzione: severe punizioni venivano inflitte a chi trascurava o peggio maltrattava il suo cavallo. Dopo dieci giorni fummo inviati al maneggio. Qui imparai le tecniche di equitazione: sellare un cavallo, sistemargli il morso, montare senza staffa (solo agli ufficiali era consentito montare  con la staffa), passo, trotto, galoppo in formazione.
      Avevo una grande attitudine all’equitazione, non caddi mai da cavallo e divenni, in poco tempo, un abile cavalleggero. Anche il mio aspetto era diventato gradevole, senza i cenci da pastore avevo una immagine ben diversa e la curavo con una certa civetteria, con la divisa sempre in ordine, che avevo fatto adeguare alle mie misure, nonostante ciò fosse proibito dal regolamento. La divisa dei lancieri comprendeva un cappello di pelo con una criniera di cavallo, una bandoliera, che aveva un incastro nel quale si inseriva la lancia durante la marcia a cavallo, e ancora sciabola e moschetto inguainate nella sella. In una  bisaccia nera, sistemata sulla sella, portavamo bombe a mano, munizioni, gavetta,  gavettino, qualche capo di vestiario.

 

 

Nicola Masi in divisa da lanciere

Dopo un mese di addestramento a Napoli ci trasferimmo a Bari e di qui fummo imbarcati per Durazzo, in Albania. Da Durazzo venimmo mandati in forze presso la caserma di Cavai. Era una zona paludosa, dopo qualche tempo scoppiò un’epidemia di febbre gialla che fece numerose vittime  nei nostri reparti.
      L’Albania era un paese miserabile. Gli albanesi erano quasi tutti di religione musulmana, usavano seppellire i morti in buche poco profonde, all’interno delle quali posavano i cadaveri su due tronchi di albero sistemati alla meglio e che spesso fuoriuscivano dalla tomba. Molte volte, quando eravamo alla ricerca di legna per il fuoco, a causa della penuria di alberi che c’era in quella zona, dissotterravamo i  tronchi dalle tombe per poterli bruciare, nonostante il gran fetore che emanavano durante il rogo.  
       Ricordo che la capitale, Tirana, aveva l’aspetto di un povero casolare. C’era gente che viveva in capanne realizzate con lo sterco delle mucche, in una condizione di miseria superiore a quella a cui io stesso ero abituato. C’erano poche costruzioni, tra cui la reggia, degne di una città e comunque tutte erano  di un  livello architettonico molto modesto.     

Sul fronte greco
Dopo circa un anno trascorso a Cavai, ci spostarono sul fronte greco, dove io ebbi il battesimo del fuoco e dove conobbi gli stenti e i pericoli della prima linea. Di solito alternavamo periodi di un mese in prima linea con periodi di un mese in seconda linea. 

Attraversamento del fiume Kalamas. I Lancieri di Aosta furono una delle prime unità a cui venne ordinato di varcare il confine il 28 ottobre 1940, data dell'aggressione alla Grecia.
 
Quando i nostri reparti di cavalleria venivano utilizzati per le cariche, di solito ci scontravamo con reparti di cavalleria nemica. Lanciati al galoppo bisognava reggere la lancia con entrambe le mani, sia per evitare che venisse facilmente deviata dal nemico, sia per reggere l’urto tremendo che si produceva quando si colpiva un corpo; le redini si facevano passare in mezzo alle dita per dare leggere correzioni al percorso, ma i cavalli erano ben addestrati e durante la carica non avevano bisogno né di essere incitati, né di essere condotti con le briglie.
      I reparti di cavalleria greca avevano cavalli bassi di statura, pertanto, per loro era facile colpire i nostri cavalli, per noi era, invece, più facile colpire i cavalieri. Più volte ho abbattuto cavalleggeri nemici, io stesso molte volte ho evitato la morte per un soffio e per ben tre volte il mio cavallo fu abbattuto, sventrato dalle lance nemiche. Quando questo capitava, in fondo era una fortuna, poiché si rimaneva nelle retrovie e la battaglia veniva completata dai reparti in formazione. Eppure, sono sincero, raramente ci capitava di avere paura prima di una carica, anzi, le affrontavamo con una certa euforia, e, urlando, ci incitavamo all’assalto. 
      Dopo ogni battaglia, quando le condizioni lo consentivano, raccoglievamo i cadaveri dei nostri morti per seppellirli in fosse comuni. I cadaveri dei nemici morti in battaglia, invece, venivano lasciati alla mercé degli animali selvatici, ma anche molti dei nostri morti subivano, spesso, la stessa sorte. Di frequente si trovavano cadaveri scheletriti nei posti più remoti.  Quando eravamo in trincea, i cavalli venivano tenuti legati in recinti vicini. La guerra di trincea non produceva grosse perdite, era molto più pericoloso mantenere delle posizioni appena conquistate: in quei casi, di solito, non c’erano protezioni valide e toccava ripararsi alla meglio, come capitava. Io, una volta, per evitare di essere colpito, mi coprii con i corpi di due miei commilitoni morti e rimasi per parecchio tempo in quella scomoda posizione, con il sangue di quei due sfortunati che mi colava addosso, sul viso, sulla divisa.Subivamo perdite consistenti quando, durante la marcia in colonna, venivamo attaccati dall’artiglieria o dagli aerei. Non si riusciva  facilmente a fermare i cavalli imbizzarriti per la paura, e tantissimi dei nostri morivano  sfracellati contro i rami degli alberi, disarcionati,  travolti o trascinati dai cavalli in fuga.

Cavalleria italiana e carri leggeri L3

 

 

Soggiorno ad Atene
La Grecia si arrese nell’aprile del 1942. Dopo la resa ci trasferimmo ad Atene, dove alloggiavamo in una caserma al Pireo. Atene era bellissima, una vera grande  città con straordinari monumenti e resti di grande antichità. I Greci sono un popolo civile, cordiale e generoso. Fra noi e loro c’era un profondo rispetto e un senso di solidarietà diffuso. Mi capitò spesso, durante i rastrellamenti, di trovare armi nelle case dei civili e molte volte, per evitare di arrestare della povera gente inconsapevole, consentii la fuga dei detentori o feci finta di non trovare nulla.
      Imparai in fretta la lingua e feci amicizia con il personale di un salone di barbieri. Ad Atene, come a Forenza, i barbieri erano anche bravi musicisti. Avevano chitarre, violini, fisarmoniche e suonavano nel salone aspettando o intrattenendo i clienti e, a richiesta, suonavano a pagamento ai matrimoni o ai festini. Per compiacerci avevano imparato anche canzoni italiane, napoletane in particolare, che suonavano e che cantavamo insieme a noi.
      Molti miei compagni lavavano personalmente i loro indumenti, io, un po’ per  vanità, un po’ per pigrizia,  preferivo che le mie camicie fossero perfettamente stirate e portavo a casa di una signora la biancheria da lavare. Non le pagavo i servigi con denaro, ma con generi alimentari e, tra questi, il pane era ciò che più richiedeva. La sua era una famiglia di contadini; essi coltivavano vigne e uliveti, ma il poco grano che producevano veniva requisito dai tedeschi. Avevano in abbondanza, invece, eccellenti olive in salamoia, che venivano preparate nell’acqua di mare.
       Mi innamorai della loro figlia, Marica, una stupenda ragazza  con occhi e capelli neri, graziosa e gentile come ne avevo viste poche. Con lei mi recavo a passeggio per il centro di Atene e, a volte, andavamo al cinema, sempre scortati dal padre o dai fratelli, ma, ciò nonostante, riuscivamo a trovare il modo di scambiarci alcuni baci. Avevo anche una fidanzata a Forenza, ma ormai mi sembrava tanto lontana ed estranea che non  suscitava più in me alcun sentimento. Sentivo che, comunque fosse andata la guerra, Marica sarebbe stata la donna della mia vita, facevamo insieme progetti sul futuro e pensavo seriamente di sposarla e portarla con me in Italia. 
Dicembre 1942: attacco alla caserma
Nel dicembre del 1942 la nostra caserma venne attaccata da un grosso gruppo di partigiani greci. Ci spararono addosso con mitra e bombe a mano. Organizzammo la difesa con qualche difficoltà, poiché eravamo stati colti di sorpresa, e ci furono molti morti e feriti.
      Io fui ferito al torace e mi ricoverarono nell’ospedale di Atene. Di lì, alcuni giorni dopo, mi trasferirono nell’ospedale militare di Salonicco.Mi curavano la ferita ma le mie condizioni non miglioravano, anzi; quando mi diagnosticarono una pleurite versavo in una condizione veramente grave. Ormai mi davano per spacciato, il cappellano mi aveva già dato l’estrema unzione, quando un giovane sottotenente medico, originario di Scalera, arrivato lì da poco, mi visitò e si rese conto che avevo una scheggia conficcata nel costato.
Mi operò d’urgenza e mi estrasse quella maledetta scheggia che mi aveva portato a un passo dalla morte.  Come per incanto il dolore, che mi aveva afflitto per tanti giorni, scomparve e potei finalmente addormentarmi. Dormii di continuo per una settimana. Al mio risveglio ero fuori pericolo e mi sentii rinascere a nuova vita.
      Rimasi in quell’ospedale per altri novanta giorni. Una crocerossina greca, per la quale avevo una certa antipatia,  un giorno andò dal comandante militare dell’ospedale e, per dispetto, denunciò che io le avevo mancato di rispetto, senza che questo corrispondesse alla verità. Ma la verità in queste situazioni è ben difficile da provare. 
      Il comandante mi chiamò in ufficio e, senza neanche riferirmi il motivo, mi urlò addosso una serie di insulti, dopo di che chiamò un sergente del corpo di guardia e mi consegnò a lui, facendo una serie di strane allusioni. Il sergente e due soldati mi portarono in cima alle scale dell’ospedale, mi chiusero in un sacco e mi lanciarono giù per i gradini, fino in fondo alla scalinata. Divertiti, ripeterono più volte questa umiliante e ingiusta punizione. Quando mi tirarono fuori dal sacco ero mezzo morto, sanguinante, pieno di lividi e contusioni.

la recluta Nicola Masi a Napoli

Il giorno dopo la mia convalescenza venne sospesa, fui trasferito in prima linea a combattere i partigiani. Furono mesi di guerra terribile, erano ormai lontani i bei giorni di Atene. La pleurite non era ancora guarita e quando, finalmente, se ne resero conto, mi inviarono nelle retrovie in un ospedale da campo e da lì, poi, in convalescenza a Mestre, in Italia.
Ritorno amaro in Italia
Quando finì il periodo di convalescenza tornai a Forenza.
      Qui le condizioni di vita erano peggiori di quelle che avevo lasciate, della mia paga da soldato, che avevo mandato in Italia, non c’era un centesimo.
      Intanto la guerra proseguiva e di notte, quando si sentivano i grossi bombardieri alleati volare verso nord, tutti i compaesani lasciavano le case e si rifugiavano in campagna. La prima sera che dormivo a casa, finalmente nel mio letto dopo tanto tempo,  venni svegliato da mia madre, che intimidita dal rombo degli aerei, per sicurezza voleva andare in campagna, presso la masseria di alcuni nostri compari, che erano i genitori della mia fidanzata. Per accontentarla la seguii e, una volta lì, rimpiansi il letto che avevo lasciato a casa, poiché mi rimediarono un giaciglio di fortuna, pieno di affamate pulci che mi tormentarono per tutta la notte.   
      Alcuni mesi dopo andai a visita medica di controllo a Taranto. Feci il possibile per essere riarruolato, ma ormai la guerra volgeva al  termine e l’esercito era in fase di smobilitazione.
      Tornai a Forenza e ripresi a lavorare nelle masserie. Qui tutto funzionava come prima della guerra: stessa miseria, stessi signori, stesse condizioni di incivile soggezione verso coloro che, per poche lire, pensavano di avere degli schiavi al loro servizio. Tutto era come prima, tutto.... tranne io !
 
Un mattino mi svegliai con la febbre: la pleurite non era ancora definitivamente guarita e spesso mi costringeva a rimanere a  letto. Un mio vecchio “padrone”, che mi aveva reclutato la sera prima per portarmi in campagna, non vedendomi arrivare al luogo convenuto si presentò a casa. Nonostante mia madre gli avesse riferito che non mi sentivo bene, s’introdusse da padrone nella nostra povera abitazione e, memore dei vecchi sistemi forti, mi afferrò per un braccio tirandomi dal letto per portarmi in campagna, dove ci attendevano i suoi affari.
      Nonostante la febbre, ebbi un sussulto incontenibile, mi alzai, lo malmenai, gli dissi ciò che da sempre avevo pensato di  dirgli,  lo sollevai di peso e lo  scaraventai in mezzo alla strada imprecando contro di lui, la sua famiglia, i suoi antenati, le sue pecore, la sua proprietà, la sua insopportabile soverchieria.
      Non era più possibile continuare a vivere  in una società in cui solo la miseria era garantita e immutabile, dove  nessuna dignità era concessa ai poveri cristi e dove il futuro era già scritto alla nascita. Ero pronto per emigrare.
 
Subito dopo la guerra mi sposai e con  mia moglie emigrai a Genova.
      Lì, dopo vari lavori, venni assunto come  ferrotramviere. Ho tirato su con decoro la mia famiglia, ho imparato a leggere e scrivere, ho compreso che la vita non è una condanna da espiare, che ci viene inflitta alla nascita e che nessuna condizione di abiezione è sopportabile per un uomo.
      Sono invalido di guerra, come mio padre. Ma non dimenticherò mai né il servizio militare, né la guerra: sono stati i momenti più intensi della mia vita e, forse, grazie a loro ho acquisito la consapevolezza che il riscatto morale e sociale è un dovere per ogni uomo. In me  è rimasto  sempre vivo il ricordo di quelle vicende e, forse, nonostante i tanti anni trascorsi, non ho mai smesso di sentirmi quel giovane soldato:
Lanciere Masi Nicola
6° Reggimento Aosta
5° squadrone
3° plotone
6^squadra
Spero che queste mie memorie possano servire ai miei figli, ai miei nipoti e a tutti coloro che in esse sapranno trovare un esempio positivo per vivere la loro vita con fiducia nel futuro.

La presente testimonianza è stata raccolta da Renato Mancino a Forenza il giorno 8 dicembre 2000. 

Bibliografia: 
voce Lancieri di Aosta, in http://Wikipedia.htm;
 
Stefano Deliperi, Lancieri di Aosta, la vittoria e la sconfitta, in http://guide.dada.net

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