Pierced Steel Planking: i cancelli della guerra
 

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   Con gli occhi dei bambini
 
(Intervista di Renato Mancino ad Antonio "Tony" Preite e Carmine "Carlo" Briscese)

Carmine e Tonino sono amici dall’infanzia. Nel 1943 erano vicini di casa e avevano rispettivamente 11 e 9 anni. Piazza Castello era il luogo solito dei loro giochi. Di qui, per mesi, avevano osservato la sentinella fascista che, durante la guerra, stazionava perennemente sulla torre del castello. Era una presenza rassicurante, messa lì a tranquillizzare tutti, grandi e piccoli: c’era chi ben vegliava su di loro.
Di lì videro passare la guerra, i movimenti concitati dei reparti di due grandi eserciti, uno  in ritirata, l’altro in rapida avanzata. Lì conobbero gli uomini che quella guerra la combattevano e che arrivavano da lontano, dall’America. 
Carmine e Tonino divennero perfino amici di alcuni di loro e anche adesso,  che di anni ne hanno 76 e 74, ne ricordano ancora i nomi, la benevolenza, la cordialità, e i momenti più memorabili trascorsi con quegli uomini, sempre gentili e generosi. Ancora ne parlano con ammirazione, quasi con incanto, perché è così che vedono le cose gli occhi dei bambini. 
Il castello di Venosa, di fronte all'omonima piazza. Sulla torre si leggono i motti fascisti "Rex", "Vincere" e "Dux".
Nel 1943 la guerra, di cui la retorica fascista narrava trionfi inesistenti,  arrivò nelle case degli italiani. Il 10 luglio la 7a Armata Americana del generale Patton e l’Ottava Armata Britannica del generale Montgomery erano sbarcate in Sicilia e ne completarono la conquista in poco più di un mese. Intanto il 25 luglio Mussolini era stato destituito: era cessato, così, il regime fascista.

 
Antonio (Tonino) Preite quell’anno aveva frequentato la terza elementare, ma, come tutti i bambini di quei tempi, collaborava quasi a tempo pieno nell’attività di famiglia: la gestione del Bar Castello, ubicato lì dove oggi c’è un atelier di moda, nel vicolo che separa i due settori dei portici. 
Con la madre si divideva gran parte del lavoro, mentre il padre girava i paesi limitrofi per riparare macchine da cucire.
Toccava a lui, di mattina, preparare alcuni litri di caffè e di caffelatte, che venivano tenuti al caldo per i clienti su fornelli elettrici. 
Toccava anche a lui, d’estate, preparare il gelato con il ghiaccio gelato con il ghiaccio che il padre, a bordo di un  traino,  andava ad acquistare a Forenza e che veniva conservato  in cantina cospargendolo di “sale giallo”, in vendita nelle macellerie. 
Nel bar i clienti giocavano a carte per ore per qualche bicchierino di anice o di rosolio "Strega" preparato in casa o, eccezionalmente, per qualche caramella alla menta: era roba per ricchi.
In agosto era arrivato in paese un distaccamento di tedeschi. Si erano acquartierati nel castello. All’ingresso, tra i due leoni, avevano sistemato un nido di mitragliatrice.
Di rado alcuni di loro andavano al bar di Tonino, giusto per qualche bicchierino. Parlavano in tedesco ma si facevano capire a gesti.
Tonino li vedeva uscire spesso con le auto dei noleggiatori di Venosa che, essendo ricoverate nel cortile del castello, vennero requisite dai tedeschi  per le loro esigenze.  Vigeva il coprifuoco e alle otto il bar doveva chiudere.
Una sera le otto erano passate da poco ma il bar era ancora aperto. 
Tonino stava pulendo alcuni bicchieri quando due tedeschi, armati di mitra, entrarono nel bar. Uno di loro puntò il mitra verso il bancone, proprio contro Tonino. 
Fece appena in tempo a lanciarsi con uno scatto sotto il grande ripiano di marmo quando una lunga raffica si abbatté sul retrobanco mandando in frantumi le bottiglie, i bicchieri e tutto quanto era lì esposto. Poi urlarono in tedesco "Schliben!"  mentre accompagnavano l’ordine con il gesto perentorio della mano che sta a significare che bisogna andare via.  E Tonino, smorto per la paura, con il fuoco assordante del mitra ancora nelle orecchie, di corsa chiuse e andò via. 

Dopo questo episodio il bar rimase chiuso in modo indefinito. 
I suoi genitori ritennero che fosse prudente non correre altri rischi, così tutta la famiglia si rifugiò in campagna, presso alcuni amici di famiglia.
Decisero che sarebbero rimasti lì fino a quando i tedeschi non fossero andati via. A Tonino, però,  toccava andare in paese di tanto in tanto per acquistare pasta, vino o altri generi di necessità. 
Era il mese di ottobre quando i tedeschi lasciarono Venosa, abbandonando oltre 2000 proiettili di artiglieria accatastati nella villa. A bordo dei loro camion si diressero verso Maschito, portandosi dietro molte cavalcature che avevano requisito nel paese. Minarono il ponte sulla provinciale per Palazzo S. Gervasio, quasi all’ingresso di Venosa e fuggirono precipitosamente.
Gli Alleati arrivarono poco dopo, dalla provinciale per Palazzo. In due ore ricostruirono il ponte che era stato fatto brillare dai tedeschi ed entrarono in paese fermandosi a Piazza Castello.
Qui era convenuta l’intera popolazione che li acclamava mentre loro, da un grosso camion che era stato parcheggiato in piazza, distribuivano sacchetti di farina, cioccolato, caffè, scatolame vario, ai ragazzini che si erano avvicinati per prendere quel ben di Dio, mentre gli adulti, pur apprezzando il gesto, si mantenevano orgogliosamente a distanza. 
Gli Americani si acquartierarono fuori Venosa, fecero un campo oltre la stazione ferroviaria.
Dopo alcuni giorni, in paese si diceva che lì avrebbero costruito un aeroporto e che, per realizzarlo, avessero già acquistato i terreni delle famiglie  Rosania, Sinisi, Rapolla, Di Grisolo.

Tonino e la sua famiglia  riaprirono il bar.
Inizialmente si vedevano solo truppe in transito verso il fronte, compresi i famigerati reparti magrebini.
Dopo la battaglia del Garigliano, nel novembre 1943, i lavori di costruzione dell’aeroporto si  intensificarono fortemente; ogni mattina gli autocarri americani trasportavano centinaia di operai e maestranze da Piazza Castello al cantiere.
Il campo fu pienamente operativo a partire dal mese di maggio 1944, quando il 485° Gruppo Bombardieri della U.S. Air Force, di stanza a Venosa,  fu a regime. 
Da quel giorno il paese visse un momento magico.
A partire dal pomeriggio si popolava di quei ragazzoni dalle buone maniere e dai modi gentili, pieni di soldi da spendere, forniti di caramelle e sigarette, che arrivavano in paese con ogni mezzo: autocarri, jeep, motociclette.
Il bar di Tonino non era mai stato così affollato. 
Anche il bordello era sempre affollato.
Era vicino al castello, lì dove oggi c’è un noto ristorante. Il proprietario era di Andria. A richiesta della maitresse, Tonino vi portava il caffè. Accedeva fino a  un salone sempre pieno di soldati in attesa.
La Militar Police aveva il suo presidio a Piazza Orazio, nei locali del vecchio circolo dei signori. Il suo comandante era il capitano Guglielmi, un italo-americano. 
Entrato in amicizia con papà Preite, il capitano Guglielmi, per evitare possibili liti tra paesani e militari, dispose che il locale fosse riservato solo ai soldati alleati.
Così comparve all’ingresso del bar una insegna triangolare, di legno, con il suo nuovo nome: “Sloppy Joes”.

 

(image from the book I'M OFF TO WAR, MOTHER,BUT I'LL BE BACK, by Jerry W. Whiting and Wayne B. Whiting, Tarnaby Books, Walnut Creek, 2001).
Allo Sloppy Joes gli americani bevevano vino spumante e mangiavano le classiche uova fritte e salsicce di maiale, ma, più di ogni altra cosa, prediligevano....l’acquasale.
Adesso gli affari andavano bene. I Preite comprarono una macchina da caffè nuova di zecca, sormontata da una fiera aquila in rame, un’altra per preparare il gelato e un triciclo per venderlo in modo ambulante. 
Tonino pedalava con il triciclo girando per il paese;  i suoi migliori clienti  erano sempre gli Americani che compravano intere stufe di gelato per regalarlo ai ragazzini di Venosa che, adoranti, a stormi li seguivano ovunque. 
Per rendere più accogliente lo Sloppy Joes, il padre di Tonino aveva assunto un’orchestrina che, con  violino, chitarra, tromba e jazz-band, suonava ogni sera brani italiani o i nuovi motivi americani. Anche Tonino, spesso, si aggregava ai musicisti e strimpellava la chitarra  con loro.
Ma, se pur si erano evitate le liti tra paesani e militari grazie alla previdente disposizione del capitano Guglielmi, non si potevano in alcun modo evitare le liti tra militari alleati, quando il tasso alcolico superava il limite di guardia.
Così spesso scoppiavano furiose risse tra militari spagnoli e inglesi, o tra inglesi e americani. Una sera, durante una di queste zuffe, qualcuno afferrò la chitarra di Tonino e la mandò in frantumi sul cranio di qualche malcapitato. Nel vedere la sua chitarra ridotta a pezzi,  Tonino si sciolse in un pianto irrefrenabile.  

 

Bar Castello (Sloppy Joes): Umberto, padre di Tony, con soldati americani. Foto Rocco Preite  
Il sergente Wayne Whiting, distinto e abituale frequentatore del locale, tentò di consolarlo: lo condusse al campo, gli regalò una quantità spropositata di cioccolata e altri dolciumi e infine gli mise in mano venti dollari perché si comprasse una nuova chitarra. 
Cosa che Tonino fece a Barletta, durante un ricovero in ospedale di sua madre.
Entrato in un negozio di strumenti musicali, chiese di poter provare una chitarra e si esibì  con un motivo americano imparato dai soldati che frequentavano il  suo locale. 
Drink a beer corporaaaal...”  cantava Tonino, mentre un piccolo pubblico di soldati inglesi e americani si era raccolto davanti al negozio, attratto dal motivo familiare. 
Lo applaudirono, si complimentarono con lui e gli pagarono la chitarra. 
Tonino, ormai chiamato “Tony”, era conosciuto e benvoluto da tutti i soldati del campo, che lo consideravano  una  loro mascotte: “Hi, Joe!”  rispondeva genericamente Tony  a tutti i loro saluti. 
Tony era di casa lì.
Tra quei tanti amici, il sergente Whiting era il suo preferito. Quando non volava il sergente andava tutte le sere allo Sloppy Joes. Quando non lo vedeva al bar, il giorno dopo Tony  andava a cercarlo al campo. Tante volte lo aspettava seduto fuori dalla sua tenda, fin quando non rientrava dal volo. 
Era felice quando vedeva arrivare il suo amico sergente, che non dimenticava mai di portare qualcosa da mangiare anche per lui.
Quando gli aerei rientravano con gli equipaggi sani e salvi, infatti, al campo si festeggiava, si scherzava, si beveva, si mangiava. Si scongiurava la morte: purtroppo non era sempre così. 
Il sergente Whiting (foto di copertina di I'M OFF TO WAR, MOTHER,BUT I'LL BE BACK, di Jerry W. Whiting e Wayne B. Whiting, Tarnaby Books, Walnut Creek, 2001).

 

La vita al campo era molto ben organizzata. C’erano anche un cinema e un teatro all’aperto. La domenica si svolgevano spettacoli con animali ammaestrati: cani, volpi, lucertole, rane, perfino pulci. Tony vi assisteva incredulo e affascinato. 
Pure lui aveva un volpacchiotto, lo aveva catturato da cucciolo. Lo regalò al soldato americano che ammaestrava gli animali. 
Dopo qualche giorno il volpacchiotto sparì con il collare e la catena. 
Tony lo ritrovò e lo riportò al soldato. Non volle più accettarlo: “Vuole stare con te!" gli disse. Riportò la volpe a casa,  la chiuse in una cantina e per mesi non la vide più. Viveva rintanata in qualche anfratto e usciva, quando non c’era nessuno, solo per mangiare. 
Così, un giorno, suo zio andò in cantina con un fucile e ne uscì tenendola per la coda.  
Tony pianse per giorni: gli toccò comprendere che gli animali potevano essere trattati in vari modi. Persino cucinati. La sua volpe, infatti, la mangiarono, con molta soddisfazione, i clienti dello Sloppy Joes.
Intanto suo padre, con altri due soci, aveva aperto un secondo locale, il Villa Rosa (Carolina Moon per gli Americani), poco oltre la villa e gli impegni di lavoro di Tonino si fecero ancora più pressanti. 
Passarono così i mesi. Arrivò anche la fine della guerra: il 29 aprile capitolarono le truppe tedesche in Italia e il 7 maggio 1945 la Germania si arrese. 
La gioia per la fine della guerra esplose anche a Venosa. Ma fu una gioia breve.
Nel giro di pochi giorni gli aerei e gli equipaggi  rimpatriarono, mentre  al campo rimase solo un piccolo presidio.  Improvvisamente Venosa perse quei graditi ospiti e le tante attività economiche collegate alla loro presenza ne risentirono subito.
Fu come la fine di un sogno anche per Tony. 
Adesso la realtà tornava prepotente con tutta la durezza delle sue problematiche, aggravate dai lunghi anni di guerra. La povertà, la mancanza di lavoro, gli stenti di una volta, infatti, non erano mai andati via. 
Di lì breve tempo anche il campo sarebbe stato definitivamente smantellato. 
Con un grande rogo gli Americani distrussero tutto il materiale che non poterono portarsi via. Erano sempre stati generosi, avrebbero potuto donare quel materiale, perché si comportarono in quel modo?  
A Tonino qualcuno disse che era successo per colpa dei comunisti.
Ne è convinto ancora adesso.
 

 

Spettacolo per soldati alla base
(da: Jerry Whiting - foto 485th BG).
 
Tony Preite con John Manfrida, italoamericano di New York, all'accampamento dell'831 Squadrone (da: Jerry Whiting - foto 485th BG).

 
 
 
 
 
 
 
 
 
Bar Castello (Sloppy Joes): Tony con sua sorella ...sul banco, dietro suo padre.  Foto Rocco Preite
Foto Antonio Di Vietri
 (cliccare sull' immagine per ingrandire)

Foto Antonio Di Vietri  (cliccare sulle immagini per ingrandire)
Carmine (Carlo) Briscese è terzo di cinque figli. Suo padre era sellaio, realizzava basti, collari, bardature, finimenti  e quanto serviva  per le cavalcature da soma e da tiro utilizzate nei lavori agricoli dai contadini. Condivideva con essi gli alti e bassi della dura vita dei campi, le difficoltà, gli stenti. Ma anche il valore dell’amicizia, della solidarietà, della parola data. Fu per questo, più che per convinzioni ideologiche, che accettò l’incarico di assessore  nelle amministrazioni comuniste che governarono Venosa negli anni difficili del dopoguerra.
Prima della guerra il padre aveva avuto una macelleria equina che poi diede in affitto. Dall’affittuario prendeva pellami e carne come  pagamento del canone. I pellami li usava nella selleria, mentre la carne veniva bollita e conservata in gelatina, all’interno di giare di creta: era una preziosa riserva alimentare per la sua famiglia,  da consumare con parsimonia.
Durante il fascismo Carmine era stato, come tutti i ragazzi, un Figlio della Lupa. Davanti alla casa del nonno osservava i giovani che facevano gli addestramenti del premilitare. Ma egli non amava la disciplina,  né la  vita  militare, né la guerra. Osservava con poco interesse i soldati alloggiati nel castello o il reparto di cavalleria accampato davanti alla fontana normanna. Sentiva di essere uno spirito  libero.
Un giorno a casa giunse la notizia che un suo zio era stato fatto prigioniero dagli Inglesi e mandato in un campo di prigionia in India. I suoi ne parlavano con preoccupazione. 
Un altro giorno seppe che a Venosa, presso la grande masseria dei Briscese - omonimi ma non parenti -, erano stati internati dei prigionieri inglesi. Volle andare a vederli. Certo erano strani nei loro pantaloncini corti, ma non gli sembrarono cattivi, anzi, furono persino gentili con lui: gli avevano offerto del chewing gum. 
Invece gli incutevano  più paura i tedeschi. Si diceva che un grosso distaccamento di truppe tedesche era accampato al Pantano, tra Venosa e Palazzo San Gervasio.
 Ed ecco che all’improvviso giunsero in paese a bordo di moto sidecar, con le loro impeccabili uniformi. Andarono sul Municipio e fecero bandire che chiunque avesse delle armi in casa doveva consegnarle in ventiquattro ore, pena la fucilazione.  
Anche suo padre, a malincuore, dovette separarsi da una doppietta a cui teneva moltissimo. Di notte c’era l’oscuramento obbligatorio e una sera che sua madre  dimenticò di tirare i tendoni alla finestra per poco non li arrestarono tutti per collaborazione con il nemico.
Un’altra volta gli capitò di assistere a un duello aereo mentre si trovava a Piazza Municipio. Un aereo da trasporto tedesco avanzava nel cielo quando venne a incrociare una squadra di sei caccia americani a doppia fusoliera, (P 38) che volavano a bassa quota lungo un canalone.  Due di questi si sganciarono dalla squadra. Dopo averlo affiancato, fecero prima un movimento oscillante di ali, forse a voler intimare una resa,  e dopo lasciarono partire lunghe sventagliate di mitragliatrice  contro il disarmato aereo tedesco che, lasciandosi dietro una lunga scia nera di fumo, cominciò subito a perdere quota. Carmine sentiva i bossoli cadere intorno a lui, sulla piazza e contro i muri della Cattedrale, ma con incoscienza non smetteva di guardare la scena. Suo fratello Vincenzo in quel momento ne vide, invece, l'atto finale. Era in campagna, a pochi chilometri da Venosa, dove si era recato per raccogliere steli di grano che servivano al padre per preparare basti da soma. Sentì il rombo crescente che si avvicinava.

 

 
   

 La dittatura fascista obbligava anche i bambini ad un inquadramento di tipo militare, in relazione all'età e al sesso: Figli della Lupa (6-7 anni) Balilla e Piccole Italiane (8-13 anni), poi Avanguardisti e Giovani Italiane (14-17), infine Giovani Fascisti e Giovani Fasciste (18-21).
Il motto del regime, per quanto riguarda l'educazione, era: "libro e moschetto, fascista perfetto".
L’aereo tedesco, con la scia nera di fumo, passò sopra di lui a pochi metri di altezza, tanto che sentì nettamente le urla disperate dei suoi occupanti pochi momenti prima dello schianto definitivo.
Poi il boato e l’incendio. Il giorno dopo Vincenzo tornò sul luogo.
Osservando la voragine creatasi nel punto d’impatto, tra i tanti reperti visibili, lo sconvolse la vista di scarpe bruciacchiate di bambino sparse nel terreno.
Capì la tragedia che si era consumata. Quell’aereo era pieno di donne e bambini, forse familiari di ufficiali tedeschi.  Era l’orrore della guerra.
Poi, finalmente, arrivarono gli Americani. Carmine aveva sempre sognato l’America. 
I fratelli di sua nonna, una Fugarazzo, erano emigrati a New York anni prima e da lì avevano spesso inviato pacchi pieni di roba alla sorella.
Era mitica l’America allora. Quei pacchi, ricolmi di ogni bene, agli occhi di Carmine erano la prova che esisteva una terra prodigiosa  e che questa terra era l’America.  
Carmine, anche grazie alla mediazione di Tonino, cercava soldati americani che arrivassero da New York. Voleva notizie dei suoi zii e dei suoi cugini americani. Dall’inizio della guerra non avevano avuto più loro notizie. Aveva scritto il loro nome e il loro indirizzo su un pezzo di carta e  lo mostrava  ai soldati con la speranza ingenua  di trovare qualcuno che li conoscesse. 

 

   
  Coda di un aereo tedesco abbattuto:
   è lo stesso che ha visto Carmine?
   (da: Jerry Whiting - foto 485th BG)

 

Tutti scuotevano la testa,  l’impresa era ardua: “New York is big!” diceva qualcuno di loro. Ma quanto potesse essere “big questa New York, Carmine non riusciva ad immaginarlo, neanche a occhi chiusi. Dovette attendere la fine della guerra  per sapere che tutti i suoi cugini erano stati arruolati, che  uno era morto in un sottomarino in Giappone, mentre un altro, arruolato in aviazione, era stato in servizio anche in Italia, nel campo aereo  di Foggia, proprio a breve distanza dalla sua famiglia originaria.  
Tra i tanti americani che Carmine aveva conosciuto, in particolare aveva fatto amicizia con il sergente  Sam, un mitragliere.
Questi gli portava in regalo chewing gum e leccornie dal campo e Carmine, per ricambiare, gli donava un po’ della carne in gelatina preparata da sua madre, che lui, di nascosto, tirava fuori dalla giara. Di solito lo andava a cercare nella villa, ed era stato una sola  volta al campo in compagnia di Tonino: i suoi genitori erano assolutamente contrari. 
Così gli aerei doveva vederli da Piazza Castello, sia al mattino quando, prima di partire in missione, via via che decollavano, sorvolavano Venosa in cerchio fino a che si potevano disporre in formazione; sia al pomeriggio, quando, ritornavano con i segni delle battaglie sostenute e sorvolavano di nuovo in cerchio il centro abitato fino a che completavano le fasi dell’atterraggio. Carmine correva ad osservarli e rimaneva per tutto il tempo con il naso all’insù. Erano visibili le ferite inferte dalle batterie antiaeree dei luoghi bombardati e, dal rombo degli aerei, aveva imparato a riconoscere se qualche motore era in avaria. Mostrava già un particolare interesse per i motori, un interesse che lo accompagnerà sempre, per tutta la vita. 
Un giorno Carmine non vide il suo amico sergente a passeggio come al solito. 
Né lo vide il giorno dopo, né il giorno dopo ancora. 
Lo attese nella villa inutilmente, con il piccolo cartoccio della carne alla gelatina in mano. Così decise di scendere al campo, nonostante il divieto dei genitori. In compagnia di Tonino si avviò lungo i sentieri che portavano al campo e arrivò al check-point.
Tonino e Carmine comunicarono il nominativo del militare a cui andavano a fare visita  e  una jeep li scortò fino alle tende. 
Ma del sergente non c’era traccia, la sua tenda era vuota.
Un altro militare americano fece capire che l’aereo del sergente Sam era stato abbattuto. Erano tanti a non tornare dalle missioni. 
Carmine provò un profondo dispiacere. Mentre tornava a casa, con il cartoccio della carne alla gelatina in mano e la tristezza nel cuore, pensava al suo amico morto che non avrebbe mai più visto.
Dovranno passare 64 anni prima di sapere che Sam era stato solo ferito in missione, ma fortunatamente era sopravvissuto.
Sammy Schneider è morto nel 2006, ormai novantenne, nella sua casa in California, senza mai dimenticare i mesi di guerra trascorsi a Venosa e senza mai sapere che il destino aveva portato anche Carmine, il suo giovane amico venosino, a vivere in  America. 
La guerra volse al termine. Anche Carmine ricorda il momento in cui il campo venne improvvisamente abbandonato. C’era un grande pozzo lì nel campo, dal quale i militari attingevano l’acqua potabile. Prima di partire lo riempirono con una grande quantità di rifiuti vari. Gli sembrò che fosse stato compiuto un’inutile e inspiegabile oltraggio.
Il dopoguerra fu molto difficile. 

 

Nel 2000 il sergente Schneider pubblicò
un resoconto dell'attività del 485th BG:
MISSION BY NUMBERS, di Sammy Schneider, Tarnaby Books, Walnut Creek, CA (seconda edizione, 2008).
Carmine lasciò la scuola e fece l’apprendistato presso una nota officina meccanica di Venosa; i motori lo affascinavano e sarà proprio l’amore per i motori che lo porterà ad emigrare nel 1950 fino a condurlo in quell’ America tanto sognata da bambino.
Ricorda lo straordinario impegno politico di suo padre nelle amministrazioni comunali di quegli anni. Lo ricorda con nostalgia e una punta di ammirazione, ripensando al suo sforzo per sedare gli spiriti più accesi, per scongiurare le vendette, per favorire la pacificazione di Venosa; e ancora con un velo di commozione riconsidera il grande senso civico che lo portava  a trascurare i suoi impegni pur di contribuire a far fronte alle gravi questioni che agitavano allora la sua comunità.
Nel castello, ormai privo della sua funzione militare, subito dopo la fine della guerra erano state alloggiate alcune famiglie tra le più bisognose del paese. I comunisti avevano ubicato lì la loro sede di partito.
La vecchia mitragliatrice del periodo fascista, privata dell’otturatore,  era ancora fissata sulla torre.
Carmine e Tonino, con decine e decine di altri bambini, trascorrevano il tempo libero in piazza, il luogo migliore per i loro giochi.
Spesso, in compagnia di altri ragazzini, sgusciavano nel castello, salivano alla torre e, alternandosi alla mitragliatrice, imitandone il crepitio a voce alta,  giocavano alla guerra: ta ta ta ta ta ...ta ta ta ta ta ...
Una guerra sempre tra americani e tedeschi, ma diversa da quella combattuta dal suo amico Sam.  
Quella era  una guerra di bambini: l’unica guerra che, forse, è  accettabile. 
Provvista di acqua potabile dal pozzo
 (da: Jerry Whiting - foto 485th BG)
Testimonianza raccolta a Venosa il 30 maggio e il 5 giugno 2008.

 

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